A proposito della “Candelora”…e non solo!
“Candelora, Candelora
dall’inverno semo fora!
Ma se piove o tira vento
Nell’inverno semo dentro”
Questo secondo un proverbio popolare diffuso tuttora in tante regioni; ma… attenzione, perché in Toscana le previsioni del tempo s’han da trarre al contrario! E infatti il proverbio dice così:
“Se nevica o gragnola dall’inverno siamo fora,
se c’è sole o solicello siamo ancora a mezzo inverno,
se c’è sole o sole tutto dell’inverno resta il brutto!”
Dalla straordinaria varietà dell’ambiente italiano – monti e mare, colline e pianure, laghi e corsi d’acqua, giochi di venti e di correnti, presenza o meno di nebbia, eccettera eccetera – ne consegue anche il variare delle previsioni meteo in forma di proverbio, che poi a mettere tutti d’accordo provvede una filastrocca popolare del Molise che recita così:
“Alla Candelora (2 febbraio) l’inverno è passato!”
ma San Biagio (che si festeggia il 3 febbraio) risponde
“L’inverno non è ancora arrivato!”
La vecchietta risponde “Quando sono sbocciate le gemme…” (allora l’inverno è passato!)
E il vecchio Simeone le risponde: “Se vuoi stare più sicura, quando arrivano i mietitori!…..”
Sia come sia, cioè soleggiato o piovoso o ventoso o addirittura nevoso, il 2 febbraio “Festa della Candelora” è un giorno luminoso. In Francia, poi, è anche gustoso, perché la “Chandeleur” è il giorno delle crepes, tra le quali spiccano le “Crepes Suzette”, perché, appunto, vanno servite belle fiammanti. La luce, già! E’ questo il “fil rouge” – ed è giusto il caso di dir così! – che lega credenze e feste di un passato assai remoto, celebrazioni e usanze di un passato più prossimo, e manifestazioni popolari ancora diffuse qua e là nel tempo presente. E se pure lì per lì sembra che non ci sia alcun rapporto tra la festa della “Candelora” presente nelle tradizioni d’Europa e la festa del “Groundhog Day” (“giorno della marmotta”) che si celebra negli U.S.A. e in Canadà, il rapporto c’è eccome, sempre nel nome della luce e con tanto di proverbi a valenza meteorologica. “If Candlemas Day is bright and clear, there’ll be two winters in the year”: e se dalla Scozia il proverbio in rima era migrato oltreoceano, anche in quelle terre nuove conservava – e tuttora conserva – una buona percentuale di credibilità perché sovente il dono di una giornata ben tersa nel pieno dell’inverno nord-americano è accompagnato da un clima ben rigido.
“Candlemas Day” cioè “Festa della Luce”, dunque cosa c’entra allora la marmotta? C’entra, eccome, e segue la traccia di quel proverbio migrato dalla Scozia alle “terre nuove” dove le tradizioni locali invitano a osservare, proprio nel giorno della Candelora, le tane delle marmotte per vedere se esse si affacciano all’esterno oppure no. Si dice infatti che se il Candlemas Day è una bella giornata di sole, la marmotta sbucando fuori dalla tana scorgerà per terra un’ombra – la sua! – per cui, impaurita, si rintanerà di nuovo per almeno un mese e mezzo; se invece il “Candlemas Day” il cielo è nuvoloso, la marmotta potrà affacciarsi dalla tana senza restar turbata e… potrà salutare, anch’essa, un più rapido allontanarsi dell’inverno.
Come le feste che affondano le proprie radici nelle tradizioni più antiche, anche in questa “Candelora d’oltreoceano” c’è sempre un legame fra la luce, la terra, i fenomeni naturali osservati e vissuti dall’uomo; ma la nota curiosa è che è una Festa del folklore americano completa con data e luogo di nascita: 2 febbraio 1887, Punxsutawney (Pennsylvania); dove appunto venne celebrata per la prima volta.
Dalle marmotte americane…. agli orsi piemontesi;
“Se l’ors a la Siriola la paia al fa soà
ant l’invern tornan a antra”
cioè: “Se l’orso alla Candelora fa saltare la paglia – il giaciglio – si torna in pieno inverno”
Questione, s’è detto, di latitudini e longitudini e configurazioni diverse dell’ambiente a motivare che qua un proverbio annuncia la fine dell’inverno, mentre là un proverbio simile da previsioni opposte.
“… se piov par Zariola
quaranta de l’inveran in s’arnova”
cioè “Se piove per la Candelora, si rinnovano quaranta giorni d’inverno” si dice in Romagna, mentre invece in Toscana, che sta dall’altra parte dell’Appennino, ci si augura il brutto tempo come annuncio di quello bello…
Siccome il 2 febbraio cade giusto giusto in un periodo dell’anno solare in cui le popolazioni erano – e sono tuttora – attente al rapporto “condizioni meteo/climatiche / sviluppo delle sementi e della vite/ previsione/ dei futuri raccolti” – ecco che nel giorno della Candelora c’è pure il modo per ipotizzare l’esito della prossima vendemmia
“Se per Candelora il tempo è bello
molto più vino avremo che vinello”
e addirittura pregustare – nel Salento – la Pasqua
“De la Candelora
ogni aceddu fa la cova” ovvero “Dalla Candelora, ogni uccello fa la cova”,
e così anche in Sicilia:
“Pa Cannillora a Jaddina fa l’ova…
pa Cannillora du nvirn sim fora,
pa Cannillora u brascin fora”.
Ma da dove viene questa festa di inizio febbraio, che conclude il cosiddetto “tempo di Natale” (tradizionalmente i Presepi allestiti per la Notte di Natale poi restano nelle Chiese fino al 2 febbraio) e che, oltre ad avere un nome che rimanda già nel suono a tempi più antichi, con tutte quelle candele rituali e che sono sovente decorate con immagini e fiori colorati e brillanti come miniature preziose, evoca quasi atmosfere da fiaba?
La festa viene da molto lontano ed ha una storia lunga, complessa, affascinante.
La celebrazione della festa cristiana della Purificazione di Maria risale alla fine del V secolo d. C. quando l’allora Patriarca di Roma, Gelasio, richiese ed ottenne dal Senato romano l’abolizione dei “”Lupercalia” ch’era la festa pagana dedicata alla fertilità e che veniva celebrata a metà febbraio nell’ambito dei 9 giorni dei “Parentalia” ( dal 13 al 21 febbraio) durante i quali venivano recati cibi e bevande alle tombe dei defunti allo scopo di rasserenarli nel loro supposto apparire qua e là – quali fiammelle vaganti – nei cimiteri.
Peraltro, in età pre/cristiana , nel corso del mese di febbraio tutta l’area indo-europea era interessata da riti e cerimonie dedicate alla purificazione e alla fertilità. Per i Romani, il mese di febbraio era dedicato alla dea della purificazione, Februa, in onore della quale venivano indette cerimonie lustrali durante le quali si svolgevano processioni alla luce di torce e candele ben accese.
Per i Celti, la festa della luce – segno di una più vicina primavera dopo il gran buio invernale – era quella che, chiamata “Imbolc” (o “Oimelc”) e dedicata alla dea Brigit, si celebrava, con corredo di candele e lumi accesi, il 1° febbraio cioè nel giorno che sta giusto a metà tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera.
In lingua irlandese, “Imbolc” sta per “in grembo” e “Oimelc” sta per “latte ovino” e basterebbe questo per ben comprendere lo stretto rapporto tra quella data che coincide col periodo dell’anno in cui nascono gli agnellini e pertanto le pecore son ricche di latte (prezioso anche per usi domestici e commerciali) e la festa intesa come tradizionale espressione di un mondo agricolo/pastorale.
I Romani trasformarono il nome della dea Brigit in quello di Briganthia, nome dal quale deriverebbero quello della “Brianza”; poi la religione cristiana fece subentrare alla festa celtica di Imbolc ( 1° febbraio) quella Candelora( 2 febbraio) e allontanò contestualmente l’ombra del culto pagano in onore della dea Brigit mettendo in calendario la festa,giusto il 1° febbraio, di Santa Brigida: sicchè, con qualche piccola ma significativa variazione di data, le tradizioni si sono fuse in un “unicum” suggestivo e le luci continuano a splendere. In Italia la diffusione della “Candelora” cristiana ci fu soprattutto a partire dal VII secolo; i ceri, benedetti nelle chiese, venivano accesi durante i temporali per invocare la protezione dai fulmini, venivano conservati a capo del letto, nella stanza da letto a garanzia di una morte serena, venivano guardati con stupore dai bambini perché spesso erano colorati e avvivati da decorazioni suggestive.
Jacopo da Varagine (cioè Varazze, in terra di Liguria) che venne eletto vescovo di Genova nel 1292 scrisse vari testi tra i quali spiccano la “Historia lombardica” detta anche “Legenda Aurea” che raccoglie ben 182 storie di santi, e la “Cronaca Civitatis Januensis” cioè una cronaca delle vicende di Genova che va dagli inizi della città fino al 1297 (il vescovo morì nel 1298).
Nella “Legenda Aurea” – raccolta affascinante di vicende e tradizioni straordinarie, che è stata e continua ad essere sia tradizionale riferimento iconografico che spunto intrigante per leggende, scritti, ricerche, e pure performances teatrali – Jacopo ricordava che le candele benedette nelle chiese per la Festa cristiana della Purificazione di Maria il 2 febbraio venivando a sostituire, di fatto, l’antico uso di accendere lumi durante le feste pagane dei “Februales” e di “Imbolc”.
A sua volta la festa cristiana dedicata alla “Candelora” richiama alla tradizione religiosa ebraica, secondo la quale le donne che avevano avuto un figlio maschio dovevano, trascorsi quaranta giorni dal parto (Levitico 12.2 – 4), recarsi al Tempio per purificarsi: e, non a caso, il 2 febbraio cade esattamente 40 giorni dopo il 25 dicembre (Natale). Il giorno della “Purificazione di Maria” veniva, un tempo, celebrato 40 giorni dopo l’Epifania (dal greco “manifestazione del divino”, cioè del Gesù) che è la data in cui, prima del IV secolo d. C. (e tuttora, nelle chiese ortodosse, greche e russe), si celebrava il Natale.
Il giorno scelto per ricordare la “Purificazione di Maria” – festa cristiana che si richiama all’uso ebraico, e che sostituisce le cerimonie pagane – celtiche e romane – coincide a sua volta con la festa cristiana della “Presentazione di Gesù al Tempio”: sicchè le candele evocano le parole che il vecchio Simeone pronunciò davanti al Bambino Gesù, e la cui fiamma evocava la purificazione, diventano così i simboli del Cristo “lumen gentium”.
Una festa assai complessa, dunque, quella della “Candelora”; tra l’altro proprio perché ha “inglobato” trasformandoli di valenza cristiana certi antichi riti di purificazione, oltre a conservare un “Quid” di misterioso, sembra che inviti a guardare avanti: verso la primavera, con tutti quei proverbi, verso la Pasqua, perché dalla fine del V secolo d. C. allorché venne introdotta nel calendario cristiano, il “tempo della purificazione” prosegue con la “Quaresima” – durante la quale l’inverno sta, via via, esaurendosi e la terra sta ,via via, preparandosi alla nuova stagione che si aprirà con la Pasqua di primavera.
In alcune Chiese di Genova è ancora viva la tradizione di offrire ai fedeli le candele benedette decorate con figurine sacre e fiori simbolici che, sullo sfondo chiaro della cera, paiono frammenti di smalti antichi. Antichi come le origini di questa Festa.
Non potendo far qui l’elenco completo di tutte le località e le chiese nelle quali continua la tradizione della candele benedette, si possono citare – per Genova – due esempi significativi: una Basilica ultramillenaria (origini fine X secolo) nel cuore del Centro Storico medievale, e un Santuario arroccato in un paesaggio montano eppure così vicino al paesaggio marino di Voltri.
Nella Basilica di Santa Maria delle Vigne, sovrastata dal magnifico campanile romanico e ricca di pregevoli testimonianze d’arte e devozione, si celebra ogni anno il 21 novembre la Presentazione di Maria bambina al Tempio; e le vicende della vita di Maria accompagnano, dai dipinti, i visitatori di questa chiesa, che è il primo Santuario mariano della città e pertanto meta di pellegrinaggio ufficiale del Doge e delle Autorità cittadine in occasione della festa del 21 novembre ( nel 1632 il pellegrinaggio fu oggetto di decreto Dogale). In questo contesto mariano – e tenuto anche conto che la Festa della Candelora è tutt’uno con la Presentazione di Gesù al Tempio ; e che l’indomani nel calendario liturgico ricorre la Festa di San Biagio del quale la Basilica conserva una reliquia – le candele vengono benedette in occasione delle funzioni religiose.
Al Santuario di Nostra Signora dell’Acquasanta, meta dei grandiosi pellegrinaggi estivi delle storiche Confratenite del ponente genovese e dove nel 1832 Maria Cristina di Savoia figlia di Vittorio Emanule I andò sposa a Ferdinando I Re di Napoli, la tradizione è di casa: dopo la Messa solenne si procede alla benedizione alla distribuzione delle candele, dopo ancora risuonano gli ultimi canti del periodo natalizio e i fedeli hanno espresso un ultimo saluto affettuoso al “Bambin Gesù” del Presepe; ma già i monaci dell’ordine di San Paolo Eremita si mettono al lavoro con la comunità acquasantese, perché l’indomani ch’è il 3 febbraio s’ha da festeggiare San Biagio, il medico che divenne vescovo di Sebaste (Armenia) nella cui cattedrale venne sepolto dopo il martirio (316 d.c.). Anche la festa tradizionale del 3 febbraio in onore di San Biagio prevede le candele, e proprio di quelle ch’erano state benedette per la Candelora del giorno precedente; in numero di due e legate da un nastro rosso a formare una croce, le candele vengono avvicinate dal sacerdote, quale benedizione, alla gola di ciascun fedele. Questo perchè si narra che San Biagio compì il miracolo, mentre veniva condotto al martirio, di salvare dalla morte per soffocamento un fanciulletto che aveva ingoiato malamente una lisca di pesce.
Candele in quantità, dunque, ai primi di febbraio e per due Feste consecutive e collegate l’una all’altra; e, per San Biagio protettore delle attività agricole (oltre che dei laringoiatri, dei suonatori di strumenti a fiato; e anche dei cardatori di lana e materassai, perché il Santo venne suppliziato con pettini di ferro)non solo candele ma anche pane, anch’esso benedetto, e grano: i chicchi, una volta benedetti e racchiusi in sacchetti che vengono distribuiti ai fedeli che potranno – come da tradizione – in parte conservarli per mangiarli a protezione dai malanni delle vie respiratorie, in parte unirli alle prossime sementi , in parte offrirli agli animali utili all’economia agricolo/pastorale, in parte interrarli in vasi o ciotole affinche germoglino e crescano in steli chiari che saranno poi collocati , il Giovedì Santo, intorno agli Altari della Reposizione dell’Eucarestia ( i “Sepolcri”). Come si vede, le Feste di febbraio guardano sempre, in un modo o nell’altro, alla desideratissima primavera soprattutto se sorte e cresciute e vissute in società agricolo/pastorali/silvane. Non a caso, a proposito della Candelora, s’è fatto già cenno agli orsi, animali selvatici che in quelle tradizioni hanno rivestito, su scala europea, ruoli importanti perché considerati capaci di fornire previsioni ben azzeccate.Si credeva infatti che , giusto allo scoccare della mezzanotte tra l’1 e il 2 febbraio gli orsi lasciassero le tane per vedere se il cielo fosse stellato oppure no: se sì, se ne tornavano al riparo per restarci almeno altri 40 giorni;se no ( e magari stava piovendo, oppure nevicando) gli orsi potevano permettersi di starsene all’aperto. Come mai? Per via delle fasi lunari, o meglio del calendario soli/lunare che ripartiva il tempo annuale in otto periodi di quaranta giorni l’uno: si credeva infatti che la luna “piena” del 2 febbraio riflettesse il tempo invernale, mentre con la luna “vecchia”il periodo di pieno inverno andasse via via spegnendosi favorendo così la ri/nascita del tempo di primavera. E non finisce mica qui! Chè l’orso, animale presentissimo già dalla Preistoria in rito e cerimonie varie, in certe località pirenaiche è oggetto di una curiosa “caccia” che, non certo per caso, va in scena proprio nel giorno della Candelora. Il fatto che l’animale selvatico sia interpretato da un uomo ben impellicciato richiama subito alla mente una delle personificazioni presenti in tanti Carnevali rurali d’antichissima tradizione, “l’uomo selvaggio”; e ricorda anche una tradizione catalana assai curiosa: quella dell’orso che esce dai boschi perché vuole incontrare nientemeno che Gesù Bambino.
Si narra infatti che un orso, giuntagli nelle selve l’eco di un evento straordinario cioè della nascita di Gesù, s’era incamminato passo passo sulla via che la Sacra Famiglia avrebbe sicuramente percorso nel recarsi al Tempio per la presentazione del Bambino al Tempio; l’orso riuscì sì a vedere Gesù, ma gli manifestò la sua gran commozione con un suono selvatico tanto da far piangere il piccolo Gesù e attirarsi così il commento di Maria “Orso tu sei, orso tu sarai, e orso tu resterai!”
L’orso, inteso pertanto come “uomo selvatico” – in genovese , “ommu sarvegu” – è uno dei protagonisti, detto anche “ Pagiassu”, dei Carnevali tradizionali liguri, nei quali l’uomo/orso sovente è coperto, anzichè di pelliccia, di ramaglie e paglia e fogliami e corteccie d’albero che ne accentuano l’appartenenza alla fauna dei boschi montani.
Per chi poi volesse farsi un’idea –e non solo a febbraio ma per tutto l’anno! -degli “ommi sarveghi” secondo l’interpretazione artistica genovese di stampo barocco, può dare un’occhiata, passando per Via San Luca, al portale del civico 12 dove due belle sculture di “uomini “selvatici” stanno ad evocare il cognome, Salvago, di un’antica famiglia che in quell’edificio aveva la propria dimora.
Ovviamente, fin dal febbraio dell’anno 2020 e tuttora, la pandemia scatenata dal Covid19 ha costretto a limitare e spesso rinviare e/o annullare una miriade di eventi e celebrazioni e cerimonie, comprese le manifestazioni tradizionali; quando possibile anche per esse si è ricorsi a sperimentare e mettere in atto un binomio strategico: tradizione e innovazione, garantendone così la conoscenza e la partecipazione a distanza mediante video e , itinerari dedicati, immagini e testi e descrizioni,fruibili on line; in certi casi- ma sempre quando possibile- le manifestazioni sono state realizzate all’insegna della massima sobrietà (drastica riduzione delle presenze, cancellazione di gesti o oggetti e quant’altro potesse veicolare il contagio, adeguamento della logistica, ecc.). E’ stato ed è importante, infatti, aver evitato e continuare ad evitare che lo storico, prezioso e affascinante patrimonio delle tradizioni vaghi smarrito nelle sabbie mobili della trascuratezza qualitativa,, del rimpianto sterile, insomma nell’oblìo.E le risorse offerte dalla tecnologia contemporanea sono di certo assai funzionali al recupero e alla tutela e alla promozione delle tradizioni: tradizione & innovazione, appunto.
Maria Elisabetta Zorzi