Tabarca, 5 maggio 2018. E’ l’ultima data storica dell’epopea del popolo tabarchino e l’ultima tappa di un viaggio iniziato 10 anni fa a proprio Tabarca proseguito a Calasetta (2010) e a Pegli (settembre/ottobre 2017). I sindaci, o i loro rappresentanti, delle comunità municipali di Pegli, Carloforte, Calasetta Nueva Tabarca (Alicante) e della stessa cittadina tunisina hanno siglato un accordo di reciproca collaborazione turistica e culturale ma preminentemente finalizzato al riconoscimento da parte dell’Unesco della cultura tabarchina come bene immateriale dell’umanità. Allo storico incontro hanno presenziato, firmando il documento finale, anche Abdelhamid Largueche, Direttore generale del Patrimonio degli Affari Culturali della Tunisia e in rappresentanza della Regione Liguria, Sergio Rosetti, e Luca Remuzzi per il comune di Genova. Vi hanno inoltre partecipato gli ambasciatori accreditati a Tunisi di Italia e Spagna. E sarà la Tunisia, come si è concordato definitivamente nell’incontro di Tabarca, a inoltrare formalmente la richiesta, con il sostegno e il contributo di tutti, di riconoscimento della cultura tabarchina come bene immateriale dell’umanità all’importante istituzione delle Nazioni Unite. Perché la storia del popolo tabarchino è la storia di una civiltà, una delle tante che, per dirla come il grande storico Fernand Braudel, si sono sviluppate in quel gran crogiuolo di culture che è stato il mar Mediterraneo. L’epopea del popolo tabarchino inizia intorno al 1540 allorquando un numero imprecisato di famiglie pegliesi si trasferisce per conto della ricca e blasonata famiglia dei Lomellini sull’isolotto di Tabarca, che è poco più di uno scoglio (ha una superficie inferiore ai 3 Kmq), di fronte alla costa tunisina per praticarvi la pesca del corallo. Ma subito dopo qualche lustro il corallo, pur essendo ancora una voce importante, non era più l’unica fonte economica dell’avamposto genovese. Da Tabarca giungevano a Genova carichi di cereali, olio, miele, legnami. Si racconta che il 30% del grano consumato in Liguria nel XVII secolo provenisse dall’isolotto tunisino. Tabarca diventò un luogo d’incrocio “pacifico” tra cristiani, ebrei e mussulmani, un crocevia di traffici commerciali ed economici, di scambi culturali e di idee, di gastronomie e di costumi. La fortuna economica e di ampia apertura culturale di Tabarca e dei tabarchini durò poco meno di 200 anni. Nei primi decenni del ‘700 iniziò il declino dell’emporio genovese e conseguentemente la diaspora dei tabarchini. Senza entrare nelle modalità e nel merito delle singole vicende, un gruppo di tabarchini nel 1738 fondò sull’isola di San Pietro, allora deserta, Carloforte, un altro sulla spagnola Ila Plana di fronte ad Alicante, fondò Nueva Tabarca(1769) e un altro ancora sull’isola di Sant’Antioco innalzò la cittadina di Calasetta (1770).
Da un tempo che fu ad un tempo, che ancora oggi è. Perché in queste tre isole del Mediterraneo “colonizzate” dai tabarchini seppure attraversate da vicende diverse, spesso drammatiche (come l’incursione barbaresca del1798 che fece schiavi quasi 1000 carlofortini) ci sono ancora gli originari cognomi pegliesi, si parla ancora l’antico genovese, si preparano le antiche pietanze, si osservano le vecchie consuetudini. L’identità linguistica e culturale è rimasta intatta nonostante il tempo e le singole vicissitudini. Cinque paesi, Pegli, Tabarca, Carloforte, Nueva Tabarca e Calasetta appartenenti a tre nazioni Italia, Tunisia e Spagna che hanno un lungo segmento della loro storia in comune. Tutto quanto rappresenta davvero un unicum tra le tante vicende mediterranee. Una storia locale che ha un respiro internazionale e che per certi aspetti è un “fossile di civiltà” (se così si può dire) da tutelare e salvaguardare.
Ora si attende la prossima primavera, quando dovrebbero giungere le decisioni dell’Unesco. Ed è un’attesa carica di speranze: se la cultura tabarchina venisse conosciuta come bene immateriale dell’umanità, sarebbe anche il primo riconoscimento ufficiale della lingua tabarchina (che paradossalmente non è riconosciuta dalla legge italiana come lingua minore) ed anche una sorta di identificazione del genovese da dove il tabarchino deriva.
Nicolò Capriata